La fotografia che cura: fototerapia e fotografia terapeutica

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Maggio 2020


Quando ho digitato per la prima volta il termine FOTOTERAPIA sul motore di ricerca Google, il primo risultato che ho ottenuto è stato: fototerapia (dal greco, “terapia con la luce”), anche chiamata elioterapia, è una tecnica curativa basata sull’uso della luce. A seguire, tutti i campi utili per la sua applicazione (per es. dermatologico). In realtà non era esattamente ciò che stavo cercando, avendo abbandonato i miei studi in medicina ormai da parecchio tempo. Ma è stato sufficiente aggiungere la congiunzione “e” per trovare immediatamente ciò che stavo cercando: Fototerapia e fotografia terapeutica. Eureka. Il primo nome associato a questa pratica abbastanza giovane è quello di Judy Weiser, psicologa e arteterapeuta americana, che è stata tra le prime a parlarne negli anni ’70 e a utilizzare pratiche curative basate sulla fotografia. Ha strutturato un vero e proprio metodo, esposto nel suo libro“PhotoTherapy Technics – Exploring the Secrets of Personal Snapshots and Family Albums”, guida imprescindibile per i professionisti della relazione d’aiuto che, per migliorare il processo terapeutico verbale, utilizzano coi loro pazienti anche tecniche non-verbali, ossia linguaggi simbolici come l’arte e la fotografia. Perchè le immagini hanno un potere evocativo straordinario. Il campo d’indagine e di applicazione di questa disciplina è ampio, ed è importante fare chiarezza fra fotografia IN terapia e fotografia COME terapia. Le definizioni ufficiali della Weiser sono: A) Fototerapia, in riferimento alle tecniche usate da uno psicoterapeuta formato nell’uso della fotografia nelle relazioni d’aiuto durante il setting e B) Fotografia terapeutica, che indica la pratica messa in atto da persone che non sono terapeuti e da persone che vogliano fare ricerca su di sè, per affrontare, comprendere e trasformare un momento di difficoltà psichica, fisica o sociale. Tuttavia c’è molta confusione nella terminologia, a seconda dei luoghi e delle specializzazioni di chi applica tali tecniche. In Italia è nato un team di professionisti (NetFo) che si occupa di formazione e ricerca in questo campo anche al fine di trovare un linguaggio comune. È sulla fotografia terapeutica che vorrei soffermarmi. Siamo abituati a pensare alla terapia come al trattamento di una malattia, secondo uno standard medico-scientifico, ma il termine significa avere cura e fotografare è “quell’agire che non cura ma ha cura, che non guarisce ma aiuta”. Mi sono fatta l’idea che la macchina fotografica possa essere per i fotografi, me compresa, non solo un mezzo per documentare la realtà esterna, ma anche indirettamente quella interna, sia che ce ne rendiamo conto oppure no. Alla fin fine credo che il fotografare si risolva sempre in un mezzo di ricerca su sè stessi, qualunque sia la tematica o il genere affrontato. Le immagini ci fanno da specchio interiore, perchè danno forma ai sentimenti, e rendono visibile l’invisibile. Il fotografo compie la dinamica , ossia porta all’esterno parti di sè e utilizza l’esterno per elaborare i propri vissuti, introietta ciò che vede per restituirlo sotto forma di fotografia. Come se la foto fosse in un certo senso un “passaggio all’atto”(acting-out), attraverso il quale si riproducono delle idee inconsce in azioni, piuttosto che come pensieri o ricordi. In alcuni le fotografie nascono come vera e propria urgenza. Mi viene in mente, per esempio, il bellissimo lavoro di fotografia terapeutica “SM” di Egle Picozzi che attraverso il medium fotografico gioca con la sua malattia, impara a conoscerla, ad accoglierla, e in qualche modo a guarirla, e quello di Marta Viola, “Sangue bianco”, diario fotografico toccante attraverso cui elabora la sofferenza legata al suo viaggio difficile nella leucemia. Perché a volte le fotografie diventano la prima, o l’unica, voce narrante possibile. Quando il peso del proprio vissuto è troppo e mancano le parole per dirlo.
“Le fotografie sono orme della nostra mente, specchi delle nostre vite, riflessi del nostro cuore, memorie sospese che possiamo tenere in mano, immobili nel silenzio – se lo volessimo, per sempre. Non solo testimoniano dove siamo stati, ma indicano anche la strada che potremmo forse intraprendere, che ce ne rendiamo già conto oppure no…”
Judy Weiser

Le fotografie tratte dal progetto di fotografia terapeutica “SEGNI” di Simona Sanna sono di proprietà dell’autrice e sono coperte da copyright.