Sul tempo fotografico

Posted on

Settembre 2020


I fotografi bramano il tempo, lo rincorrono. Per esorcizzare la morte, da sempre, l’uomo sogna di fermare con qualunque mezzo quello che Eraclito chiama il “divenire”, il panta rei, e i fotografi ci provano con le immagini. La sfida è persa in partenza eppure, per questa irresistibile ambizione verso l’infinito, continuano a ricercare l’illusione di poter bloccare con uno scatto lo scorrere impietoso del tempo almeno per un istante, per poterlo vivere e rivivere, e renderlo eterno.
“Il denominatore comune di tutte le foto è sempre il tempo, il tempo che scivola via tra le dita, fra gli occhi, il tempo delle cose, della gente, il tempo delle luci e delle emozioni, un tempo che non sarà mai più lo stesso” (J. Sieff).
Secondo le attuali leggi della fisica, ogni scatto in realtà è solo un’ “illusione del momento presente”, perché riproduce un continuum temporale di ciò che stiamo inquadrando, che quando abbiamo fermato è già passato. Il tempo di esposizione, o tempo di scatto, tecnicamente è il tempo durante il quale l’otturatore della fotocamera rimane aperto per permettere alla luce di raggiungere il sensore (o la pellicola), e anche quando è brevissimo (in alcune fotocamere può arrivare a 1/80000 sec) ha pur sempre una durata che non si risolve in un solo istante. Neanche in una futuristica fotografia realizzata ad un “tempo zero” di esposizione, equivalente alla velocità della luce, potremmo vedere realmente l’attimo presente, perché il tempo sarebbe fermo e non ci sarebbe alcuna immagine perché non si impressionerebbe alcun sensore o pellicola. Ma «qualunque tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia» (Terza legge di Clarke) e mi piace pensare che la luce, ogni volta che viene trasformata in informazioni visive ed emozioni, riesca ad oltrepassare i limiti spazio/temporali, contravvenendo alle leggi della fisica. La macchina fotografica è dunque un po’ come una macchina del tempo, una DeLorean reloaded di “Ritorno al futuro” e le fotografie gettano un’ancora visiva su avvenimenti, luoghi, persone. Riguardandole, si può avere veramente la sensazione magica di poter viaggiare nello spazio e nel tempo anche a distanza di centinaia di anni o di chilometri e di tornare nel passato con l’illusione di essere lì presenti.
La fotografia, fin dalla sua nascita, ha sempre avuto fra i suoi scopi principali quello di documentare e lasciare una traccia tangibile per i contemporanei e le generazioni successive. Come fosse un prolungamento della nostra memoria, un archivio a cui consegniamo racconti di vita e frammenti di noi stessi. Oggi questa sua funzione primaria, ossia salvare un momento dall’ inesorabile scorrere del tempo, sembra stia venendo meno. La nostra memoria è sepolta da cumuli d’immagini che non abbiamo neanche più il tempo di guardare e le fotografie che ogni giorno vengono condivise in rete sembrano voler essere più un mezzo di “auto-celebrazione” che un ricordo personale. Il paradosso moderno è che, nel mare magnum della bulimia visiva digitale, avere moltissime foto è come non averne nessuna. Il bombardamento di immagini cui siamo quotidianamente sottoposti, migliaia e a volte identiche, prive di significato, oppure sfocate, ha come effetto probabile l’oblio, la cancellazione della memoria storica in una sorta di nuova ondata iconoclasta. Foto che svaniscono velocemente al primo sguardo o che restano virtualmente accatastate l’una sull’altra o archiviate su un hard disk esterno senza riguardarle più. Un investimento potenziale di memoria a lungo termine, quindi, ma i supporti tecnologici sono in continua evoluzione e già adesso alcuni files sono obsoleti e non sempre riusciamo ad aprirli se le fotografie sono state scattate con versioni di cellulari o fotocamere di qualche tempo fa. È molto probabile che alcuni ricordi siano stati già rimossi dai nostri dispositivi, chissà fra qualche decina d’anni. Potrebbe essere utile continuare a stampare le fotografie, almeno le più significative.
Nel 2011 l’ olandese Erik Kessels, nel suo interessantissimo lavoro 24 Hours in Photos, per rispondere alla domanda: , anziché eseguire un calcolo astratto, ha scaricato l’enorme e monotono flusso delle foto condivise su Flickr durante 24 ore. Senza selezionarle, le ha stampate in formato 10×15 e le ha riversate fisicamente nelle sale del Foam di Amsterdam e poi nel mondo, in altre sedi espositive. Le immagini così smaterializzate hanno acquistato corpo, in tutta la loro dirompente presenza fisica. I visitatori si trovano davanti montagne di fotografie alte fino al soffitto. L’autore ha avuto l’intuizione di rendere tangibile ciò di cui solitamente possiamo avere solo un’idea vaga e astratta. In un mondo in cui tutto viene fagocitato nella durata di un battito di ciglia è fondamentale ritrovare il tempo per fermarsi e riflettere. A riprova del fatto che, come disse Umberto Eco: “una cultura si costruisce“ non solo “attraverso il ricordo, ma anche attraverso la selezione dei ricordi”.

1. “Sottrarre istanti al tempo”, di Ferdinando Scianna
2. “Time at work”, di Sarah Moon
3. “Back to the future (Christoph 1990-2011, Berlin Wall)”, di Irina Werning
4. “24 hours in photos”, di Erik Kessler